UN’INTERESSANTE PRESA DI POSIZIONE DELLA CORTE MILITARE DI APPELLO: “SI FACCIA I CA**I SUOI” NON È INGIURIA AD INFERIORE

05 giugno 2025

Il capo IV del Titolo III del Codice penale militare di pace tratta “Dell’abuso di autorità” e i reati contenuti nel capo IV sono due: l’art. 195 c.p.m.p. violenza contro un inferiore e l’art. 196 c.p.m.p. “minaccia o ingiuria a un inferiore”.

Il reato di “Minaccia o ingiuria a un inferiore” – in particolare con riferimento all’ipotesi di ingiuria - ex art. 196 c.p.m.p. prevede quanto segue: […] Il militare, che offende il prestigio, l’onore o la dignità di un inferiore in sua presenza, è punito con la reclusione militare fino a due anni. […]”.

Evidente come, dalla semplice lettura della fattispecie in esame, sia centrale l’elemento dell’offesa all’onore ed alla reputazione.

Verteva proprio su questo argomento un recente caso di cui si è occupato lo Studio Legale Ceoletta.

Un appartenente all’Aeronautica Militare veniva condannato in primo grado dal Tribunale Militare di Verona per il reato di “ingiuria ad inferiore (articolo 196 c.p.m.p.) cfr. per aver profferito nei confronti di un suo subalterno, frasi del tipo “ma a lei cosa cazzo gliene frega”, “si faccia i cazzi suoi”, “se le ho fatto una richiesta faccia il cazzo di favore di fare il suo lavoro”.

La difesa proponeva appello avverso la sentenza di primo grado richiedendo una nuova  e divergente valutazione dei fatti di causa.

Nel gravame si sosteneva, con una precisa ricostruzione che consentiva di ben contestualizzare il fatto, che le frasi utilizzate dal superiore non fossero certamente volte ad ingiuriare il sottoposto, ma volevano tuttalpiù esprimere il disappunto provato dal primo in seguito ad una evidente inefficienza del sottufficiale nel proprio lavoro ed al suo comportamento poco professionale.

Proprio in questo senso si è determinata la Corte Militare di Appello che ha rilevato quanto segue “Conseguentemente, le frasi riportate in imputazione che si assumono pronunciate dall'imputato, nel contesto di lavoro come sopra descritto, nei confronti di un militare a lui sottordinato (“ma a lei cosa cazzo gliene frega" "si faccia i cazzi suoi", "se le ho fatto una richiesta faccia il cazzo di favore di fare il suo lavoro"), pur potendo, da un punto di vista sociale, valutarsi scurrili o quantomeno inopportune, […] non appaiono integrare, a giudizio di questa Corte, un'oggettiva ingiuria a danno del destinatario, essendo del tutto prive di connotati offensivi sia relativi alla persona del Maresciallo, sia alla sua professionalità e capacità lavorativa. Il frasario adoperato, senza dubbio volgare e sgarbato, palesa, nel suo contenuto letterale, il solo intento dell’Ufficiale di manifestare il suo disappunto per un servizio che non gli era stato fornito nei termini e nelle modalità che lo stesso imputato riteneva di dover ricevere.”

La Corte ritiene, quindi, che dal compendio istruttorio non fosse possibile ravvisare, a differenza di quanto ritenuto nella sentenza di primo grado, una unilaterale manifestazione di disprezzo ed arroganza di un superiore nei confronti dell’inferiore, dalla quale traspaia una "volontà espressa di annichilire il subalterno", di "sminuire gratuitamente la dignità dell'inferiore gerarchico" e di "rimarcare l'abisso dei ruoli".

Per tutte queste ragioni la Corte Militare di Appello riteneva che le parole pronunciate dall’imputato non fossero oggettivamente idonee a recare offesa penalmente rilevante al presunto offeso.

In conseguenza di ciò ed in totale riforma della sentenza di primo grado, la Corte territoriale assolveva l’imputato per insussistenza del fatto.

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